Nello specchio della distanza

“Professoressa – dice Sara a mia moglie – io e il mio fidanzato siamo costretti a stare lontani ed io ogni sera piango perché mi manca”. Che forza i ragazzi: non nascondono, come i grandi, l’anima ferita.

Sara rappresenta la coscienza più pura di quello che in questi giorni un po’ tutti stiamo provando. Improvvisamente, dalla sbandierata finzione di esistenze costruite all’insegna dell’autosufficienza, ci siamo accorti che le nostre vite, se si svuotano di presenze come le strade, fanno paura. E’ bellissimo sentire parole come quelle di Sara, sono l’ammissione del fatto che abbiamo bisogno di un altro per poter essere, non già qualcosa, ma semplicemente essere.

Scrive Pasternak: “tutti noi siamo diventati uomini solo in quanto abbiamo amato altri uomini (…) è proprio dei nostri cuori, finché siamo fanciulli, amare con dedizione, senza riserve, con un’intensità pari al quadrato della distanza” (Boris Pasternàk, Il salvacondotto). Si diventa uomini solo attraverso gli uomini. Lo dice mirabilmente anche il poeta argentino Julio Cortazar: “…tutto quello che ho te lo do, certo,/ ma tutto quel che ho non ti basta,/ come a me non basta tutto il tuo. (…) Sei sempre stata il mio specchio (…) per vedere me devo guardare te.” (Julio Cortazar, Bolero). In entrambe le poesie però viene introdotto un altro aspetto non secondario: la lontananza e il fatto che, per quanto ci si possa stringere, non ci bastiamo mai. Nei rapporti sperimentiamo sempre un’ultima irraggiungibilità che non riusciamo a vincere. Cosa cerchiamo, dunque, quando ci cerchiamo? Perché, pur nella finitezza, siamo così necessari gli uni agli altri? Di cosa abbiamo veramente bisogno? Per Carlo Betocchi:  “ciò che occorre è un uomo un passo sicuro e tanto salda/ la mano che porge, che tutti/ possano afferrarla, e camminare/ liberi e salvarsi. (Carlo Betocchi, Ciò che occorre è un uomo). Occorre cioè incontrare qualcuno dal passo sicuro che tenda una mano a cui aggrapparsi. Incontrare qualcuno così rappresenta la possibilità di mettersi in salvo dal nulla e consente alla vita di diventare feconda. A volte capita di fare incontri con uomini in cui questo si sintetizza in maniera mirabile.

Oggey è un ragazzo conosciuto qualche tempo fa a Roma alla presentazione di un libro. Ha iniziato a scrivere durante il periodo di reclusione nel carcere di Rebibbia, quando Zingonia, poetessa italo-sudamericana, lo ha avvicinato al mondo della scrittura nel corso del suo laboratorio. Oggey racconta l’esperienza fatta, parla del suo incontro con il mondo delle parole e dalla commozione che anima il suo discorso è chiaro il debito di gratitudine verso quella donna: ha offerto a lui e agli altri uno sguardo umano con cui iniziare a guardare nuovamente la realtà. Uno sguardo per mettere a fuoco anche la dura esperienza del carcere. Legge una sua poesia: Io sono un nuovo arrivato/ in questa casa/ un nuovo abitante di questa zona/ qui dentro/ – in questo posto -/ c’è tanto da scoprire/ Pieno di stupore/ ogni giorno scorgo/ le meraviglie del cielo:/ qui/ ogni giorno/ maturano le fragole. (Oggey Magoryabanda, in Il fiore nella crepa, Edizioni della Meridiana). Un senso di libertà pervade noi che stiamo ad ascoltare. Oggi Oggey, tornato libero, collabora con una un’associazione che si occupa di recupero di ragazzi in situazioni di disagio. La sua vita, attraverso quell’incontro, è divenuta nuovamente fertile e feconda.

Allora sia benedetta la voglia di cercarsi; ma se vogliamo che il nostro stare al mondo diventi generativo, dobbiamo porre attenzione a questi elementi: alla purezza dei ragazzi, ad una mano salda da poter afferrare, alle parole stupite di qualcuno che si accorge che in lui rinasce la primavera e che già maturano le fragole.

Articolo pubblicato su L’Osservatore Romano del 6 aprile 2020.

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